ORIETTABERTI
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Diario
2022: GENNAIO
La copertina e l’intervista su
Vanity Fair
2022: Gennaio
La copertina e l’intervista su
Vanity Fair
Ben
«Siamo nati per amare»
DI JONATHAN BAZZI
2022: Gennaio
La copertina e l’intervista su
Vanity Fair
Ben
Il nuovo successo, l’incontro con la musica «giovane», i diritti
per tutti, l’infanzia tra «diavolo» e acqua santa. La sua vita
di eccezionale normalità. Orietta Berti alla fine di un anno
molto speciale ci ha invitati a casa sua, parrucche
comprese.La sottile magia di Orietta Berti sta nel conciliare
mondi ritenuti fino a quel momento scissi, lontanissimi: il bel
canto di una volta e il rap, le bluse di paillettes e i tatuaggi
dei trapper, la famiglia più tradizionale e la libertà
femminile, l’immagine rassicurante e i colpi di scena utili nel
generare fiotti di meme. Tutto in lei risuona di un’eccezionale
normalità ed è forse anche per questo che, dopo anni di
relativa distanza dall’occhio del ciclone mediatico, Orietta è
tornata più luccicante e richiesta che mai: Sanremo 2021, poi
Mille con Fedez e Achille Lauro, tanta tv e da poco un nuovo
singolo frutto della collaborazione con la Machete gang di
Hell Raton, subito prima di partire on the road con Mara
Maionchi e Sandra Milo per un progetto Sky.
L’ho
incontrata
ai
bordi
del
set
di
cui
vedete
gli
sfavillanti
risultati
in
queste
foto,
tra
le
sue
bambole
d’epoca
e
le
parrucche
fluorescenti
con
cui
era
solita
travestirsi
nei
party
della
comunità
LGBTQ+
di
Los
Angeles
che
amava
frequentare
prima
delle
restrizioni
pandemiche,
per
rievocare
ciò
che
è
stato
e
soprattutto
sarà.
Un
lungo
salto
temporale
all’indietro
fino
a
Cavriago,
il
paese
dell’Emilia
in
cui
è
cresciuta,
famoso
per
la
piazza
col
busto
di
Lenin
ai
piedi
del
quale
ancora
oggi
vengono
portati
fiori
rossi.
«Ricordo
le
processioni
col
mio
papà:
andavo
sempre
a
messa
con
lui,
i
suoi
amici
più
cari
erano
tutti
sacerdoti.
Il
mio
compito
era
quello
di
tenere
i
cestini
pieni
di
petali
di
fiori
e
di
spargerli
per
la
strada.
Anche
se
mi
divertivo
di
più
ad
andare
alle
manifestazioni
politiche
con
mia
madre
Olga,
fervente
comunista,
dove
la
banda
suonava musiche allegre».
Da piccola quali erano i suoi modelli?
«Ero
un
maschiaccio.
Avevo
più
amici
che
amiche,
prendevo
le
sembianze
di
quelli
che
mi
sembravano
più
forti,
dei
bulli.
La
prima
bicicletta
l’ho
voluta
da
maschio.
Me
l’hanno
presa
usata:
di
soldi
ne
giravano
poco.
Cadevo
sempre,
fossi,
canali,
la
bicicletta
da
femmina
era
più
facile
da
gestire.
Più
volte
ho
rischiato
di
affogare
nel
canale
del
paese.
Ho
avuto
un’infanzia piena di giochi pericolosi».
La musica quando arriva?
«Ho
iniziato
a
studiare
canto
per
volontà
di
mio
padre:
avrebbe
voluto
fare
il
tenore
ma
non
aveva
potuto,
motivi
economici.
Mi
mandò
a
scuola
di
canto
lirico
e
tutti
gli
dicevano
di
lasciar
perdere:
“Signor
Galimberti,
guardi
che
la
ragazza
non
ha
voce”.
Ero
timidissima:
a
tredici
anni,
davanti
al
maestro
che
mi
suonava
gli
arpeggi
per
i
vocalizzi,
mi
paralizzavo.
Ma
mio
padre
ha
insistito
e
abbiamo
iniziato
coi
concorsi».
Ben
Poi c’è stato l’incidente.
«Mio
papà
è
morto
che
avevo
diciotto
anni.
Era
in
motorino,
un
suo
amico
l’ha
chiamato
e
un
camioncino
della
frutta
non
lo
ha
visto.
Ha
battuto
la
testa,
è
morto
sul
colpo.
Il
trauma
in
me
non
è
mai
andato
via:
sono
diventata
ansiosa,
anche
come
moglie e come mamma».
Lei
ha
però
un’immagine
molto
lieve,
ironica.
Che
rapporto ha col dolore?
«Il
dolore
non
si
cancella.
Lo
alterni
ai
momenti
felici:
quando
incontri
la
persona
giusta,
quando
ti
sposi,
quando
arriva
il
primo
figlio.
La
vita
è
un’altalena
tra
il
sorriso
e
il
pianto.
Ma
davanti
al
pubblico
devi
essere
sempre
serena.
Se
tuo
marito
sta
male,
vai
avanti,
se
tuo
figlio
sta
male,
pure.
Poi
nel
camerino
fai
quello
che
vuoi.
Mi
hanno
sempre
detto:
“Come
sei
serena,
ti
va
sempre
bene
tutto”.
Non
è
vero:
cerco
di
adattarmi
al
momento.
Se
qualcosa
non
va
non
è
che
prendo
e
vado
via:
le
cose
si
devono
sistemare
subito,
le
piccolezze
non
risolte
diventano
tragedie».
Senza
suo
padre
come
è
andata
avanti
la
sua
carriera?
«A
un
concorso
di
voci
nuove
avevamo
conosciuto
Giorgio
Calabrese,
autore
di
cantanti
famosi
e
trasmissioni
televisive.
Poco
dopo
mio
papà
venne
a
mancare:
mia
madre
decise
che
avrei
fatto
altro.
Mi
aveva
iscritto
a
una
scuola
di
modelliste:
in
Emilia
c’era
tanta
richiesta
di
disegnatrici
di
divise
per
le
fabbriche.
Calabrese
non
avendo
più
mie
notizie
si
mise
in
contatto
col
bar
di
Cavriago,
parlò
con
mia
madre
per
convincerla
a
darmi
un’altra
chance
con
la
musica.
Lei
era
contraria:
si
trattava
di
andare
a
Milano
per
alcuni
provini.
Si
convinse
quando
le
dissero
che
avrei
alloggiato
dalle
suore.
Mi
presero
alla
Phonogram,
che
era
poi
l’etichetta
della
Philips,
la multinazionale».
Ben
Primo successo: le canzoni di Suor Sorriso.
«Me
le
proposero
per
la
Pasqua.
Io
ero
contraria:
non
volevo
essere
etichettata
come
la
suorina
che
canta.
Che
altro
avrei
potuto
fare
dopo?
Allora
nel
1965
abbiamo
lanciato
insieme
Tu
sei
quello
e
le
canzoni
di
Suor Sorriso: vinsi Un disco per l’estate».
Suor
Sorriso
che
tra
l’altro
ha
poi
avuto
un
destino
infausto.
«Siccome
mi
aveva
portato
fortuna
sono
andata
a
trovarla
a
Waterloo,
in
Belgio,
dove
stava
cercando
di
mettere
in
piedi
un
orfanotrofio
per
bambini
autistici.
Aveva
bisogno
di
soldi.
Stava
in
un
appartamento
minuscolo:
le
portammo
un
po’
di
denaro,
ma
i
suoi
debiti
erano
ormai
troppi.
La
Chiesa
l’aveva
abbandonata,
due
mesi
dopo
si
suicidò».
Ha
dovuto
lottare,
in
quanto
ragazza,
per
la
sua
libertà?
«A
un
certo
punto
gli
uomini
di
casa
nostra
morirono
tutti:
prima
mio
zio,
a
cui
venne
la
Sla,
poi
mio
padre.
Rimanemmo
da
sole,
io,
mia
nonna
e
mia
madre.
E
tutti
consigliavano
di
mandarmi
a
lavorare,
il
canto
non
era
considerato
un
mestiere.
Quando
Claudio
Villa
mi
propose
di
andare
in
tournée
un
mese
e
mezzo
negli
Stati
Uniti
mia
madre
si
oppose:
“Ti
mando
solo
se
prima
ti
sposi”.
Ero
già
fidanzata
con
Osvaldo,
solo
che
era
periodo
di
Quaresima.
Lei
prese
accordi
col
parroco
per
una
deroga.
Mi
sono
sposata
e
siamo
partiti.
La
mia
vita
è
sempre
stata
ibrida, doppia: donna di spettacolo e di famiglia».
Ben
La stampa ha nutrito a lungo pregiudizi.
«Mi
dicono:
“Hai
sempre
avuto
tanto
successo”.
Ho
sempre
venduto
tanto,
vero,
soprattutto
d’estate,
ma
sono
stata
anche
criticata.
Dicevano
che
le
mie
erano
canzoni
troppo
popolari,
facili.
Eppure
venivano
incise
anche
all’estero. Esistono versioni giapponesi, turche, finlandesi dei miei pezzi».
Come reagiva alle critiche?
«Osvaldo
se
la
prendeva
di
più,
io
sapevo
che
questo
lavoro
è
così.
Nella
mia
casa
discografica
ogni
quattro
anni
cambiava
tutto
lo
staff:
tedeschi,
poi
olandesi,
francesi.
Per
loro
eri
un
prodotto.
E
di
conseguenza
io
ero
fredda.
Anche
le
canzoni:
mai
scelte
io.
Loro
le
facevano
ascoltare
in
fabbrica,
agli
operai
della
Philips.
Le
mandavano
tutta
la settimana, e al venerdì chiedevano di votare. Ho sempre inciso la canzone scelta dalla fabbrica».
Tante
tensioni
sono
arrivate
col
caso
Tenco,
col
biglietto
che
aveva
lasciato
prima
di
spararsi:
incolpava
il
successo della sua Io, tu e le rose.
«Sandro
Ciotti,
suo
caro
amico,
mi
disse
che
quel
biglietto
non
poteva
averlo
scritto
lui.
C’erano
errori
grammaticali
e
Luigi
era
colto.
Il
fratello
stesso
non
ha
riconosciuto
la
grafia.
Ora
hanno
riaperto
il
caso:
c’è
sempre
l’ombra
dell’omicidio.
Forse
alcuni
giornalisti
se
la
sono
presa
con
me
per
il
loro
rimorso:
quelli
nella
giuria
di qualità avrebbero potuto ripescare Tenco, invece scelsero La rivoluzione, di Mogol».
Quel periodo l’ha segnata?
«Molto,
sono
diventata
un
capro
espiatorio.
Mi
salvò
il
direttore
di
TV
Sorrisi
e
Canzoni
di
allora.
Lanciò
un
sondaggio:
quale
canzone,
secondo
i
lettori,
avrebbe
dovuto
vincere.
Anche
Oggi
fece
lo
stesso.
A
entrambi
i
sondaggi vinsi. Per il pubblico ero innocente».
Per la stampa?
«Sembrava
avessi
la
peste.
Quando
andavo
alle
manifestazioni
mai
un
articolo.
Iniziò
la
macchina
del
fango:
scrissero
che
mio
marito
aveva
perso
ottanta
milioni
al
casinò
di
Sanremo,
e
noi
non
siamo
mai
stati
al
casinò
di
Sanremo.
Feci
causa,
e
vinsi.
Ho
devoluto
il
risarcimento
in
beneficenza.
Un’altra
volta
venne
un
giornalista
a
casa:
scrisse
che
avevo
in
casa
tutti
mobili
di
Aiazzone.
Quando
in
realtà
il
mio
commercialista
era
anche
commercialista
del
marchese
Manodori,
che
in
quel
periodo
aveva
bisogno
di
soldi:
come
favore
mi
aveva
chiesto
di
comprare
credenze e quadri del marchese. Avevamo in casa tutti mobili del Settecento».
Secondo lei qual è la sua caratteristica che ha fatto affezionare a lei il pubblico?
«Non
ho
mai
imbrogliato,
ce
l’ho
fatta
senza
passare
dalle
lenzuola
di
nessuno
e
senza
aiuto
politico.
Ancora
oggi
è
facile
lavorare
in
tv
e
nelle
manifestazioni
se
hai
amicizie
politiche.
Sono
arrivata
a
cinquantacinque
anni
di
carriera
con
le
mie
forze
e
con
la
forza
del
pubblico.
Ho
fan
che
mi
seguono
da
quando
hanno
sette
anni:
magari
nel
tempo si sono appassionati ad altri generi, altri stili, ma sono rimasti fedeli anche a me».
Ben
La novità ora è che la seguono anche i più giovani: come si arriva a Mille?
«Si
è
proposto
Fedez.
Pensavo
fosse
un’uscita
così
tanto
per
dire,
una
delle
solite
frasi
di
quando
si
fanno
le
interviste.
Invece
no,
mi
ha
mandato
il
provino
del
brano
e
dopo
poco
sono
andata
da
lui
a
Milano
a
inciderla.
Poi
mi
ha
richiamato:
“Vuole
unirsi
anche
Achille
Lauro,
lo
prendiamo?”.
“Certo,
è
un
terno
al
lotto”,
ho
risposto.
Ma
la
madre
di
Fedez
era
contraria:
pensava
avremmo
dovuto
cantarla
da
soli.
Invece
Fedez
ha
pensato
che
il
trio
fosse
una novità visto che stavano uscendo un sacco di duetti per l’estate».
In questi giorni stiamo ascoltando anche il brano prodotto da Hell Raton, Luna piena.
«Manuelito
a
Sanremo
mi
ha
sostenuto
tanto
tramite
Twitch:
subito
dopo
il
Festival
mi
ha
proposto
il
progetto,
solo
che
poi
è
venuta
fuori
Mille.
Mi
sono
scusata,
non
sapevo
che
avrebbe
avuto
un
successo
del
genere.
Difficile
ora
il
confronto. Ha voluto farla comunque, voleva farmi fare questo pezzo “sotto cassa”».
Tra rapper e trapper è a suo agio?
«Il
tempo
che
passa
così
non
mi
pesa:
vivendo
nello
spettacolo
tu
non
hai
età,
vivi
con
questi
ragazzi
che
parlano
sì
usando termini un po’ diversi, ma sempre il tuo stesso linguaggio, il linguaggio dello spettacolo».
Prossimi progetti?
«Quando
Manuelito
torna
da
Dubai
giriamo
subito
il
video
del
brano.
Nel
frattempo
ho
registrato
la
nuova
sigla
dello
Zecchino
d’Oro:
Amazzonia,
dedicata
alla
crisi
climatica.
Poi
a
fine
gennaio
uscirà
il
cofanetto
per
i
cinquantacinque
anni
di
carriera
con
un
nuovo
singolo,
un
pezzo
proibitivo,
dal
vivo
a
Sanremo
non
avrei
potuto
farlo».
Poi l’anno prossimo, su Sky, andrà in onda una serie on the road con lei, Mara Maionchi e Sandra Milo.
«Da
morir
dal
ridere.
All’inizio
ci
hanno
detto:
“Prima
destinazione
Sydney”.
Io
contenta,
ci
sono
stata
tante
volte,
volevo
tornarci.
La
Milo
a
piangere:
“Non
posso
lasciare
i
miei
figli
da
soli”.
Invece
era
uno
scherzo:
siamo
andate
in
giro
per
l’Europa,
e
ce
ne
hanno
fatte
fare
di
tutti
i
colori.
È
una
vacanza
da
sole,
senza
gli
uomini,
senza
i
nostri
principi.
La
Milo
aspetta
sempre
il
principe.
Mio
marito
non
voleva
partecipassi:
sono
sempre
fuori
casa,
io
ho
voluto
farlo
lo
stesso.
Ci
siamo
divertite
tantissimo
e
siamo
state
fortunate:
in
tre
settimane
ha
piovuto
solo
l’ultimo giorno. È stato emozionante: vai via, lasci un posto in cui sei stata bene, e anche il cielo piange».
Lei parla spesso delle sue vacanze negli Stati Uniti e della coppia gay a cui ha fatto da testimone di nozze.
«Io
non
ho
fratelli,
sono
figlia
unica,
i
miei
fratelli
sono
Sergej
ed
Ezio,
che
vivono
a
Los
Angeles.
Ezio
ha
lavorato
con
Gianfranco
Funari
e
poi
con
Paolo
Limiti,
a
cui
mandava
ospiti
le
dive
americane
del
passato.
Per
ventisei
anni
sono
andata
a
trovarli,
sempre
a
giugno:
facevo
le
vacanze
tra
Los
Angeles
e
Las
Vegas.
Ora
è
un
po’
che
non
vado:
per il lavoro ma soprattutto per il Covid».
Ben
Sui diritti LGBTQ+ nel nostro Paese si fa ancora fatica.
«Una
cosa
incivile.
Siamo
nati
per
amare,
non
per
odiare.
Ci
sono
genitori
che
per
questo
non
vogliono
più
vedere
i
figli:
che
genitori
sono?
È
ignoranza
e
basta.
Che
poi,
anche
la
parola
“diversità”
io
non
la
capisco:
dove
sta
la
diversità?
Se
uno
ha
la
pelle
gialla,
nera
o
blu,
se
è
gay,
se
è
trans.
Bisogna
vedere
la
persona
com’è, i suoi comportamenti. Ma la gente è stupida. E la politica non aiuta».
Motivo?
«Prendere
due
voti
in
più.
Come
quelli
che
sostengono
chi
non
si
vaccina.
Sono
in
malafede,
sanno
benissimo
che
bisogna
vaccinarsi,
che
salva
la
vita.
Mi
diranno
che
sono
una
dittatrice,
ma
io
il
vaccino
lo
metterei
obbligatorio.
Io
il
Covid
l’ho
avuto,
e
l’ho
attaccato
anche
a
Osvaldo.
Noi
ci
siamo
salvati,
invece
un
mio
amico
di
cinquantun
anni,
Carlo, sano come un pesce, in otto giorni è morto. Ora non vedo l’ora di fare la terza dose».
Quelle
che
compaiono
in
queste
foto
sono
le
sue
bambole.
E
colleziona
anche
acquasantiere,
Puffi,
Barbapapà,
camicie da notte…
«Di
bambole
ne
ho
più
di
novanta,
in
una
camera
tutta
loro.
Più
altre
su
in
solaio,
nei
bauli.
Da
piccola
non
mi
piacevano:
anche
perché
non
potevamo
permetterci
quelle
belle.
Osvaldo
quando
ci
siamo
fidanzati
me
ne
portò
una
bellissima,
tutta
col
pizzo.
Uscì
una
foto
sul
giornale
con
questa
bambola
e
da
allora
per
compleanni,
Natale,
anniversari
tutti
continuano
a
mandarmi
bambole.
Ora
ho
già
il
pensiero
di
andare
a
casa
a
metterle
a
posto
com’erano nella loro stanza. Ognuna ha il suo».
Anche le parrucche usate in queste foto sono sue.
«Sono
quelle
che
usavo
a
Los
Angeles
per
i
party
dei
miei
amici
gay,
e
le
più
belle
sono
rimaste
là.
Qui
in
Italia
queste
hanno
cominciato
a
usarle
i
miei
figli
per
Carnevale:
a
furia
di
ballarci
e
sudarci
dentro
si
stavano
rovinando.
Allora
un
giorno
le
ho
prese
e
gli
ho
fatto
un
bel
bagno
nella
vasca.
Le
ho
pettinate
tutte
e
stese
al
sole
ad asciugare. Ha provato a toccarle? Sono tornate nuove».
Foto: Leandro Manuel Emede; Servizio: Nick Cerioni
Hanno collaborato Michele Potenza, Salvatore Pezzella e Noemi Managò. Make-up Giuseppe Tamburrini.
Set designer Piero Figura. Fondali Scenografici Luisa Terruzzi. Si ringrazia Dock41