ORIETTABERTI
Tutti i diritti riservati © Settembre 2005
Ricordo di…
Tommaso Labranca
Ricordo di
Tommaso Labranca
29 agosto 2016
Quando
abbiamo
appreso
la
tristissima
notizia
della
scomparsa
del
carissimo
amico
Tommaso
Labranca,
io
e
la
mia
famiglia
siamo
rimasti
sconvolti
ed
increduli,
sentendoci
vicini
nel
dolore
alla
sua
cara
mamma,
alla
sorella
Angela
e
a
tutti
i
suoi
famigliari.
Tommaso
era
un
geniale
autore,
uno
scrittore
libero,
fuori
dagli
schemi
e
un
grandissimo
intellettuale,
ma
ancor
prima
era
per
me
e
per
la
mia
famiglia
un
caro
amico,
una
persona
splendida,
un
grande
confi-
dente,
un
VERO
AMICO…
un
amico
con
cui
conversare
e
riflettere
su
tutto.
La
sua
capacità
di
leggere
la
società,
nei
suoi
cambiamenti
e
nelle
sue
forme
era
una
vera
fonte
di
ispirazione
per
tutti
coloro
che
hanno
avuto
la
fortuna
di
conoscerlo.
Ci
incontrammo
tanti
anni
fa
per
il
programma
tv
“Anima
mia”
e
tra
noi
nacque
subito
una
amicizia
incredibile,
un
feeling
che
lo
condusse
a
scrivere
da
autore
il
mio
libro
biografico
“La
Vita
secondo
Orietta”.
Tommaso
era
una
persona
SPECIALE,
un
PURO,
un
GRANDE
e
in
tantissimi
(non
solo
nel
mondo
della
cultura
e
dello
spettacolo)
sentiremo
la
sua
mancanza.
Ciao
Tommaso
non
ti
dimenticheremo
mai.
Con
affetto.
Orietta Berti
DI SEGUITO, UN BELLISSIMO ARTICOLO DI STEFANO BARTEZZAGHI, GIORNALISTA E AMICO DI
LABRANCA, PUBBLICATO SUL PORTALE “DOPPIOZERO”
Nella
foto
sopra,
Tommaso
Labranca
e
Orietta
Berti
nel
1997
quando
erano
entrambi
ospiti
fissi
della
tra-
smissione
televisiva
“Anima
mia”.
A
destra,
la
coperti-
na
del
libro-intervista
“La
vita
secondo
Orietta”,
pub-
blicato nello stesso anno per la “Sperling & Kupfer”.
Tommaso Labranca, vivere di istinti
Stefano Bartezzaghi
«Mo
guarda,
è
rimasto
normale!
È
sempre
normale!».
Non
mi
sento
legittimato
a
riferire
chi
e
in
quale
occasione
ha
espresso
questo
giudizio
su
Tommaso
Labranca
(1962-2016),
uno
scrittore
e
studioso
che
rivendicava
una
normalità
che
però
sembrava
mostrarsi
impossibilitata
a
essere
incarnata
da
lui.
Ma
la
persona
e
l’occasione,
persino,
davano
senso
a
quel
giudizio
inverosimile,
proprio
in
forza
dell’eccezionalità
e
della
normalità di Tommaso.
Tommaso
Labranca
è
morto
all’improvviso,
di
notte,
da
solo,
il
29
agosto
del
2016.
Da
un
paio
di
giorni
accusava
malesseri
che
a
lui
erano
parsi
passeggeri
e
invece
erano
i
sintomi
di
una
severa
crisi
cardiocircolatoria.
Molti
conoscevano
solo
vagamente
il
suo
nome;
per
altri
è
stato
uno
dei
principali
intellettuali
italiani,
a
partire
da
metà
degli
anni
Novanta,
quando
propose
ad
Alberto
Castelvecchi
(allora
editore
attentissimo
alla
cultura
dei
nati
negli
anni
Sessanta)
testi
che
poi
andarono
a
formare
un
libro
dal
fantastico
titolo
di
Andy
Warhol
era
un
coatto.
Vivere
e
capire
il
trash
(1994).
L’anno
successivo
lo
stesso
editore
pubblicò
Estasi
del
pecoreccio.
Perché
non
possiamo
non
dirci
brianzoli
(1995),
che
si
chiudeva
con
una
celebre
lettera
aperta
in
cui
Labranca
provava
a
spiegare
a
Roberto
Calasso
chi
fosse
mai
Rosario
Fiorello
(all’epoca
eroe
del
karaoke
e
del
simil-rap da Giosue Carducci).
Tommaso
ha
poi
fatto
molte,
molte
altre
cose;
molte
altre
non
le
ha
fatte.
Sulla
sua
biografia,
bibliografia
e
curriculum
in
genere,
nei
giorni
dopo
la
scomparsa,
la
Rete
ha
trasmesso
molte
opinioni,
alla
cui
risolutezza
polemica
non
sempre
corrispondeva
una
conoscenza
puntuale
dei
fatti.
Ma
succede
sempre
così;
tanto
più
inevitabilmente
è
successo
sul
caso
di
Tommaso,
che
non
era
certo
persona
accomodante
e
scevra
da
controversie.
Dopo
un
libro
per
Stile
Libero
(vediamo
se
per
una
volta
riesco
a
mettere
le
H
giuste:
Chaltron
Hescon,
Einaudi,
1998),
i
suoi
titoli
si
sono
diradati
e
per
l’editoria
maggiore
non
ha
più
scritto
altro
che
biografie
(anche
in
forma
di
instant
book)
su
personaggi
come
Orietta
Berti,
Renato
Zero,
Michael
Jackson,
Freddie
Mercury,
Pietro
Taricone,
i
Coldplay...
.
Il
resto
lo
ha
pubblicato
con
editori
minori
o
lo
ha
autoprodotto,
persino
artigianalmente,
e
non
si
tratta
di
testi
minori.
Tornato
all’editore
Castelvecchi,
fece
uscire
di
lì
il
suo
libro
più
struggente
e
rappresentativo
e, almeno secondo me, non certo il più facile: Il piccolo isolazionista (2006).
Per
la
tv,
esordì
come
autore
e
personaggio
con
Anima
mia,
varietà
di
grande
successo
di
RaiDue
(non
ne
è
stato
l’ideatore,
come
pure
è
stato
detto:
ma
certamente
dal
momento
in
cui
entrò
nel
progetto
ne
ha
costituito
da
solo
una
nuova
anima,
dandogli
fondamenti
teorici
che
senza
di
lui
non
sarebbero
stati
quelli);
collaborò
ancora
con
Fabio
Fazio
sino
al
2001,
e
poi
fu
autore
e
personaggio
in
programmi
di
reti
minori
e
maggiori
sino
a non molti anni fa, sia in televisione sia in radio.
Ora
qui
non
voglio
tracciare
un
profilo
di
Tommaso,
compito
per
cui
al
momento
non
avrei
le
competenze
né
le
condizioni
di
spirito
adeguate.
Mi
limito
a
segnalare
che
con
la
nuova
direzione
di
Linus
affidata
a
Pietro
Galeotti
(già
coautore
di
Anima
mia
e,
per
più
di
trent’anni,
di
tutti
gli
altri
programmi
di
Fabio
Fazio)
Tommaso
aveva
intrapreso
una
collaborazione
che
l’infarto
fatale
ha
interrotto
al
primo
numero
(quello
in
edicola
in
questo inizio di settembre 2016 in cui scrivo).
Nei
giorni
della
scomparsa
di
Tommaso
si
sono
letti
molto
riferimenti
alla
sua
intransigenza
e
anche
al
suo
carattere;
amici
dolenti
lo
hanno
definito
un
«rompicoglioni»
con
cui
era
impossibile
non
litigare,
che
perciò
è
stato
messo
ai
margini.
Equivocando
uno
dei
primi
obituaries,
il
sito
repubblica.it
ha
addirittura
dato
notizia
di
un
suo
trasferimento
corrucciato
in
Canton
Ticino
(dove
Tommaso
in
effetti
aveva
attività
e
dove
aveva
fondato una rivista svizzero-italiana, Tipografia Helvetica, mantenendo però ostinatamente la sua residenza a Pantigliate, MI, sulla Paullese).
Quello
che
oggi,
e
da
questo
disgraziato
29
agosto,
voglio
fare
è
chiedermi
perché.
Nello
specifico:
perché
qualcuno
che
è
stato
chiamato
genio,
principale
intellettuale
dell’ultimo
ventennio,
grandissimo
e
finissimo
interprete
della
cultura
di
massa
e
di
anni
disgraziatissimi
(quelli
dei
fallimenti
di
tutte
le
opzioni
di
qualche
forza,
nella
politica
sociale
e
culturale
del
Paese),
perché
non
ha
trovato
le
adeguate
amplificazioni
per
la
sua
voce?
Come è andata?
Si
può
provare
a
rispondere
a
questa
domanda
sopra
una
base
aneddotica:
ognuno
di
coloro
che
hanno
avuto
modo
di
parlarne
con
Labranca
conosce
storie
di
emarginazione,
sino
al
limite
del
mobbing,
da
lui
subita,
e
ognuno
ne
ha
valutato
per
sé
l’attendibilità.
Ci
sono
poi
l’argomento
del
«carattere»
e
quello
dell’«intransigenza»,
intersecati
fra
loro.
Personalmente,
non
penso
che
Tommaso
scrivesse
cose
ineccepibili:
aveva
il
piglio
del
critico
anche
se
vestiva
volentieri
gli
abiti
del
teorico
(il
più
delle
volte
in
modo
intenzionalmente
parodico).
Non
mi
pare
che
abbia
mai
rivalutato
qualcosa
che
avesse
disprezzato
in
passato
ma,
certo,
molte
volte
ha
fatto
la
mossa
contraria.
Era
un
critico:
stava
sull’onda,
aveva
un
istinto
immediato
per
ciò
che
andava
e
ciò
che
non
andava
e
i
suoi
testi
spesso
sembrano
spiegazioni
che
lui
offriva
a
sé
stesso
a
proposito
di
un’intuizione
critica
che
aveva
avuto.
La
sua
avversione
per
Goffredo
Fofi
pareva
più
di
merito
che
di
metodo:
l’ambizione
fofiana
di
indicare
cosa
seguire,
e
cosa
non,
era
anche
di
Labranca,
certo
in
tutt’altra
direzione.
Ma
non
avendo,
neppure
minimamente,
un
sistema
di
potere,
un
interesse
personale,
una
convinzione
e
una
propensione
a
creare
una
scuola
vera
e
propria,
Tommaso
si
concedeva
il
lusso
di
cambiare
idea,
di
rovesciare
i
suoi
stessi
apoftegmi,
senza
alcuna
preoccupazione
di
rimanere
solo,
ma
anzi
dichiarando
ostinatamente
e
incrollabilmente
di
provarne
la
relativa
voluttà.
Tutto
questo,
e
ho
già
scritto
tantissimo,
per
arrivare
al
punto
che
più
mi
preme.
Io
insegno
semiotica
all’università,
una
materia
molto
deprecata
(pure
da
Tommaso,
peraltro).
Lavorando
con
gli
strumenti
che
la
semiotica
ha
messo
in
campo
a
partire
dai
primi
anni
Sessanta
per
l’analisi
di
comunicazione
e
significazione
ci
si
rende
conto
facilmente
di
come
mai
le
comunicazioni
di
massa
non
la
considerino
minimamente.
Morto
Umberto
Eco,
poi,
in
Italia
la
materia
rischia
di
essere
ancora
più
svalutata
di
quanto
non
sia,
dal
punto
di
vista
accademico.
Eppure
siamo
tutti
convinti di vivere nell’era della comunicazione, e non abbiamo certo a torto.
Tommaso
non
era
un
semiologo
o,
per
dirla
meglio,
non
era
un
semiologo
accademico;
aveva
però
un’attenzione
maniacale
ai
segni,
ai
linguaggi,
ai
dettagli
(aveva
oltretutto
un
diploma
di
interprete
simultaneo
e
si
manteneva
traducendo
manuali
tecnici,
con
grande
scrupolo
e
perizia,
per
quel
che
ne
ho
potuto
intuire).
Conosco
molti
dei
motivi
esteriori
per
cui
quella
di
Tommaso
Labranca
non
è
stata
considerata
una
firma
spendibile
per
i
mass-media
italiani,
che
pure
a
volte
l’hanno
sperimentata.
Ma
la
domanda
che
mi
faccio
è
se
i
mass-media
possano
davvero
sopportare
un
livello
di
critica
che
non
è
quella
dello
snobismo
di
chi
non
guarda
Maria
De
Filippi
ma
se
ne
schifa
a
priori,
né
quella
della
malizia
di
chi
la
attacca
perché
vuole
avere
da
lei
un
contratto
di
consulenza.
Io
temo
(e
temo
che
tale
timore
non
sia
ingiustificato)
che
il
famoso
«carattere»
e
la
famosa
«intransigenza»
di
Tommaso
(oltre
a
portarlo
a
commettere
sgarbi
veramente
esecrabili
verso
persone
che
non
lo
meritavano)
abbiano
mascherato
qualcosa
di
molto
più
profondo
e
inscalfibile:
l’incompatibilità
fra
la
società
dello
spettacolo
e
ogni
critica
che
la
investa
alle
radici,
con
competenza,
capacità espressiva, lavoro dall’interno.
Un
amico
che
non
sapeva
altro
di
Tommaso
mi
ha
scritto
oggi
a
proposito
dell’analisi
di
Prospettiva
Nevskij
(in
Chaltron
Hescon,
cit.),
dicendo
che
mancava
di
«consapevolezza»
o
«metaconsapevolezza»,
e
che
poteva
essere
«messa
analiticamente
in
ridicolo».
È
vero:
la
lettura
della
canzone
era
molto
divertente
ma
non
mostrava
di
capire
che
il
testo
di
Battiato
era
volontariamente,
e
quindi
non
cialtronescamente,
un
aggregato
di
luoghi
comuni.
Al
mio
amico
ho
solo
risposto
che
Battiato
era
allora
all’apice
della
sua
apparenza
e
della
sua
postura
da
guru,
e
questa
per
Tommaso
era
già una ragione sufficiente.
Tommaso
poteva
infatti
attaccare
qualcuno
solo
sulla
base
delle
pose
di
costui,
e
sbagliando
anche
di
grosso.
Amava
Orietta
Berti
anziché
Battiato
(quello
amato
da
quasi
tutti)
e
Tenco,
anche
se
le
sue
capacità
analitiche
avrebbero
certamente
trovato
qualcosa
più
che
tracce
di
emulazione
fallita
nella
sua
amica
Orietta.
Questo
succedeva
perché
i
sensori
di
Tommaso
oscillavano
ampiamente
fra
normalità
e
eccezionalità,
a
seconda
di
quanto
l’una
e
l’altra
fossero
esibite,
in
certi
contesti,
in
certe
circostanze.
Ma
al
di
là
di
sbalzi
d’umore,
oscillazioni
critiche,
antipatie
e
simpatie,
complessi
d’Edipo
o
d’altro
stampo,
il
problema,
secondo
me,
rimane:
quanto
le
comunicazioni
di
massa
sopportano
una
critica
davvero
radicale?
Perché
le
rubriche
di
critica
culturale
sono
scomparse
dai
giornali,
sostituite
da
opinioni
favorevoli
o
sfavorevoli,
in
entrambi
i
casi
di
origine
sospetta?
Perché
la
semiotica
è
una
disciplina
reietta
e
le
facoltà
di
scienze
della
comunicazione
sono
considerate
come
feccia
accademica
in
una
società che di comunicazione invece vive? Mediocrità degli addetti? O esiste qualche ragione un poco più strutturale?
Io
non
penso
che
Tommaso
oggi
avrebbe
potuto
scrivere
davvero
su
un
giornale
eminente
o
occupare
una
cattedra
universitaria:
non
avrebbe
potuto
perché
(penso
che)
non
l’avrebbe
voluto
e
perché
il
panorama
attuale
dell’industria
culturale
italiana
non
sarebbe
stato
in
grado
di
raggiungere
un
accordo
reciprocamente
proficuo
con
la
sua
genialità.
Avrebbe
lui
stesso
dovuto
imparare
tanto,
in
termini
di
metodo,
rigore,
deontologia
e
non
so
se
si
sarebbe
ben
disposto
all’evenienza.
Ma
l’ostacolo
maggiore
non
era
certo
costituito
dal
suo
essere
un
«rompicoglioni»
o
un
«intransigente»:
università,
giornali,
tv
traboccano
di
esemplari
di
entrambe
le
categorie.
Non
sono
però
altrettanto
competenti
né
altrettanto
disinteressati.
Tommaso
Labranca
ha
così
dovuto
e/o
preferito
vivere
di
istinti,
di
scrittura,
di
sbalzi
d’umore
e
di
una
marginalità
difesa
come
un
tratto
identitario;
delle
risate
che
suscitavano
certe
sue
fantastiche
invenzioni
e
della
solitudine
insondabile
da
cui
le
generava.
È
andata
così:
è
stato
un
grande
peccato per tutti noi; è stato un peccato enorme, capitale, imperdonabile per lui.
Ricordo di
Tommaso Labranca
SAGGISTA E SCRITTORE, ANIMALISTA E CRITICO DELLE SOTTOCULTURE.
NEMICO DEL POPULISMO E DEGLI INTELLETTUALI SNOB, ODIAVA I SOCIAL NETWORK
di RANIERI POLESE per “IL CORRIERE DELLA SERA”
Da
tempo
Tommaso
Labranca
si
era
stancato
di
fare
il
precorritore,
quello
che
individua
con
anticipo
gusti
mode
tendenze.
E
lui
non
solo
li
scopriva
ma
sapeva
anche
analizzarli
e
interpretarli.
Si
era
stancato
pure
dell’Italia
e
della
sua
povera
industria
culturale
che
dei
tipi
come
lui
per
un
po’
se
ne
serve,
poi
li
butta
via,
magari
rubando
loro
idee,
scoperte,
categorie
e
contrabbandandole
come
proprie.
Nel
dare
l’addio
a
Labranca
non
c’è
solo
la
grande
malinconia
per
la
perdita
di
un
amico
e
di
una
grande
mente,
c’è
pure,
soprattutto,
la
triste
constatazione
di
come
nei
suoi
confronti
sia
stata
praticata una lunga, tenace, ottusa incomprensione.
Secondo
un
canovaccio
già
collaudato
per
un
altro
grande
irregolare,
un
fratello
maggiore,
uno
zio
bizzarro
come
fu
Oreste
del
Buono,
quello
che
ci
fece
scoprire
i
gialli
di
Hammett
e
Chandler,
i
fumetti
americani,
la
pubblicità,
il
linguaggio
della
tv,
e
che
oggi,
mentre
si
pubblicano
saggi
su
«Linus»
e
sui
messaggi
subliminali
degli
spot,
nessuno
sente
il
dovere
di
ricordare.
Lui,
Tommaso
Labranca,
si
era
ritirato
in
Svizzera,
dirigeva
una
rivista
di
ricerca,
«Tipographia
Helvetica»,
di
cui
—
lo
ha
scritto
nel
suo
commosso
ricordo
su
«Nazione
Indiana»
Gianni
Biondillo
—
i
nostri
impareggiabili
blogger
che
sanno tutto non conoscevano nemmeno l’esistenza.
Nato
54
anni
fa
a
Milano,
raccontava
di
aver
avuto
la
sua
prima
illuminazione
estetica
nel
1970
guardando
«Un
disco
per
l’estate»,
vinto
da
«Lady
Barbara»:
«Avevo
otto
anni,
e
il
vestito
di
velluto
verde
stile
Oscar
Wilde
di
Renato
dei
Profeti
mi
sembrò
bellissimo.
Anni
dopo
lo
cercai,
ma
ormai
non
era
più
di
moda».
E
così
già
intuiva
la
dura
legge
del
revival:
«Dieci
anni
è
noia,
venti
è
moda,
trenta
è
storia».
Agli
anni
Settanta
e
al
loro
pazzesco
mix
di
politica
e
moda,
di
musica
e
rivoluzione,
di
pessimo
gusto
e
coraggiose
innovazioni,
Labranca
sarebbe
sempre
ritornato,
nei
suoi
libri
(il
romanzo
78.08,
Excelsior
2008,
racconta
la
storia
dello
sfigato
Antonio
Maniero
dell’hinterland
milanese,
quasi
omonimo
del
Tony
Manero-
John
Travolta
del
«Sabato
sera»)
e
nei
programmi
tv
(«Anima
mia»,
1997,
con
Fabio
Fazio
e
Claudio
Baglioni).
Lì,
in
quel
decennio
popolato
da
Cugini
di
campagna
e
Renato
Zero,
lui
vedeva
la
realizzazione
perfetta
della
categoria
estetica
del
trash.
Ovvero
—
cito
—
del
«risultato
imperfetto
dell’emulazione
di
un
modello,
un’imitazione
che
a
un
certo
punto
fallisce
e
in
questo
scarto
crea
il
trash».
Senza
connotazioni
negative
né
positive
(«una
categoria
estetica
come
il
barocco»
diceva),
il
trash
era
l’ultima
grande
manifestazione
della
creatività
italiana.
Dopo
sarebbe
venuta
solo
la
noia
della
ripetizione,
le
repliche infinite e squallide di quel fenomeno.
A
questi
risultati
teorici
Labranca
aveva
dedicato
due
libri,
Andy
Warhol
era
un
coatto.
Vivere
e
capire
il
trash
e
L’estasi
del
pecoreccio.
Perché
non
possiamo
non
dirci
brianzoli,
pubblicati
entrambi
da
Castelvecchi.
Occhio
alle
date,
1994
e
1995,
ben
prima
cioè
della
famosa
antologia
Gioventù
cannibale,
Einaudi
Stile
Libero
1996,
il
libro
più
citato
rievocato
festeggiato
degli
anni
Novanta,
considerato
lo
spartiacque
tra
il
nazional-popolare
e
il
postmoderno.
A
cui,
lui,
Labranca
non
partecipa
(c’erano
Nove,
Ammaniti,
Luttazzi,
lui
no).
Certo,
per
la
ditta
Cesari&Repetti
di
Stile
libero
Labranca
scrive
un
grande
saggio,
Chaltron
Hescon,
1998,
ma
subito
emigra
verso
altri
editori
e
altre
esperienze.
Come
le
biografie
di
cantanti
pop,
e
il
capolavoro
è
La
vita
secondo
Orietta,
Sperling
&
Kupfer,
dedicata
a
«tutti
quei
giornalisti
tanto
incolti
quanto
presuntuosi che, sorridendo maligni e schifati di Orietta Berti, si sono potuti sentire almeno una volta ‘intelligenti’».
Nemico
del
populismo
e
degli
intellettuali
snob
che
lo
criticano
(chissà
cosa
avrebbe
potuto
scrivere
su
Capalbio
che
rifiuta
i
rifugiati),
Labranca
osservava
ormai
da
lontano
le
strane
ibridazioni
tra
antichi
retaggi
e
nuovissimi
mezzi
di
comunicazione.
Odiava
i
social
network,
corrispondeva
solo
con
pochi
intimi
amici,
aveva
scelto
l’esilio.
Isolato,
mentre
i
giovani
degli
anni
80
vincevano
premi
Strega
e
sfornavano
volumi
per
i
maggiori
marchi
editoriali,
Labranca
se
ne
è
andato
in silenzio. Incompreso fino all’ultimo, ma forse contento di provare che in Italia a essere intelligenti non c’è gusto.